La novella umana di Oreste del Buono

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di Marina Bisogno

In noi è odio ma un odio, un furore senza altro oggetto che noi stessi: il furore di essere tanto schiavi della nostra miseria, della nostra vigliaccheria.

Il peggio dell’essere umano è condensato in questa frase: se non c’è alternativa all’orrore, diventiamo un grumo di paure e violenza, e la distanza tra gli uomini e gli altri esseri viventi – le tigri, i leoni, ad esempio - si riduce. Siamo fatti di luci e di ombre, ma se la notte interiore è favorita da condizioni esterne, diventa complicato gestire questo equilibrio sottile. L’abbrutimento e il tentativo di tenere accesa la fiammella della solidarietà umana sono due motivi centrali in Racconto d’inverno (minimum fax), testimonianza piena di lirismo e sofferenza dell’esperienza di Oreste Del Buono - autore a tutto tondo (narrativa, giornalismo, saggistica), editor e traduttore - che durante la Seconda Guerra Mondiale viene fatto prigioniero dai tedeschi e condotto nel campo di lavoro di Gerlospass. È il 1943, Del Buono è arruolato in Marina, l’armistizio del Paese segna l’inizio della resistenza contro il nazifascismo e molti soldati italiani subiscono le ritorsioni degli ex alleati. Tra questi c’è Del Buono, che durante la prigionia non smette di prendere appunti: scrivere è già il suo modo di stare al mondo. Racconto d’inverno, di chiara matrice autobiografica, viene pubblicato sotto forma di novella per la prima volta nel 1945. Minimum fax lo ripropone nel 2019, valorizzando una delle prime testimonianze della guerra, antecedente anche a Se questo è un uomo di Primo Levi. Del Buono non sceglie l’io narrante: predilige la terza persona, crea dei personaggi e si serve di uno di loro, Tommaso, il cui sguardo, disincantato ma non rassegnato, mette a fuoco vicende dolorose, irreversibili.

Siamo arrivati a rubarci il pane, il pane risparmiato o elemosinato, qualcosa che appartiene al sangue, alla carne, siamo arrivati a rubare il sangue, la carne ad un altro affamato.

Non è un testo di trama, non succede quasi nulla: il suo valore sta nella scrittura telegrafica, impalpabile che rievoca le violenze e gli stenti degli uomini nel campo, la loro trasformazione, l’annebbiamento della mente, il ritorno ad un’era barbarica, come se la civilizzazione non fosse mai avvenuta. Tommaso e gli altri si sono arruolati per il desiderio di sfuggire al degrado e alla povertà. Nello stanzone dove sono ammassati, senza privacy, a patire il freddo e i morsi della fame, non fanno che parlare di cibo, donne e ricordi di infanzia. Ogni giorno percorrono strade innevate per andare a lavorare: senza gli abiti adatti, con le mani e le labbra falciate dal freddo, disboscano un’abetaia per costruire una teleferica. Le guardie tedesche li sorvegliano, urlano, li spintonano. Sono ridotti a muli da soma, senza amore, senza calore e una sensazione costante di umiliazione sotto pelle. La speranza è che la guerra finisca, restituendo la vita che si è presa a forza. Qualcuno sgattaiola di notte nelle stanze delle donne che lavorano nel campo, anche loro devastate nel corpo e nella mente, ma pur sempre femmine, con un seno, un ventre, una bocca, due braccia accoglienti, sufficienti per sfuggire alla sensazione perenne di morte e sfinimento. Non ci sono prospettive allettanti, diversivi: gli occhi dei prigionieri sono fermi su un paesaggio di montagna innevato e avvolto in un’atmosfera di dannazione.

È la tristezza che rende monotone le voci, come un ferro che batta su un ferro all’infinito. Pensava al corpo di Kata che aveva avuto acconto al suo sulla branda, alla carne di lei: su tutti pesa la tristezza come un sopruso, ma non possiamo sfuggirle. Il nostro ridere è insincero. Siamo monotoni sotto un peso di dolore

dice Tommaso in uno dei passaggi del libro. L’inverno non è solo una stagione, ma anche uno stato d’animo. Tommaso e i compagni sono in balìa di una corrente che non riescono a controllare. Quello che vivono è illogico, inumano, indegno. Il passato ritorna nei sogni confusi, nei discorsi strascicati, stanchi, ripetitivi; il futuro è un auspicio, una chimera. Nel 1945 rievocare quei giorni per Oreste Del Buono è una forma di terapia: riportare a galla il vissuto, farne materia letteraria attraverso un alter ego che si scompone di continuo in un noi. Io, noi, voi: sono voci narranti della medesima storia. Una storia che ha contrassegnato quello che è stato dopo, fino a noi, nel ventunesimo secolo. Racconto d’inverno è un pugno, un rumore fastidioso e insistente, un prurito, il ronzio di una mosca che non rompe il silenzio. Rammenta agli uomini come si può diventare piccoli e insignificanti se si mette da parte la ragione per lasciare spazio all’odio e al disprezzo.

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