Il colle degli impiccati, di J. M. De Eça de Queirós

J. M. De Eça de Queirós  Lindau Editore Traduzione di Giuliana Segre Giorgi  pp. 64 Euro 9,00

J. M. De Eça de Queirós
Lindau Editore
Traduzione di Giuliana Segre Giorgi
pp. 64 Euro 9,00

Da Agosto 2018, Lindau ha portato in libreria il piccolo capolavoro gotico di Eça de Queirós, lo scrittore portoghese che ha fatto del realismo uno dei fondamenti della propria opera. Con questo racconto lungo, la poetica intensità della narrazione dimostra quanto sia mutevole e fruttuosa la complessità autoriale di un bravo narratore, almeno quanto sia inutile e riduttiva la classificazione di un’opera in un genere confezionato.

In queste pagine i moti del cuore umano, e delle umane passioni, siano indagati con sensibilità sottile e a tratti evocati con commosso lirismo – senza che ne scapiti uno stile che non si saprebbe immaginare più plastico e vigoroso, più naturale e preciso. Eppure essi passano sempre al filtro dell’ironia, e ne risulta una sorta di lievità divertita, e anche di malinconico distacco, quasi che la materia del narrare fosse, da chi scrive, più contemplata che davvero goduta.

Cattedrale vi propone un estratto del testo, per gentile concessione dell’editore.

*

1

 

Nell’anno 1474, che fu così ricco di grazie divine per tutta la cristianità, regnando in Castiglia el-rei Enrico IV, venne ad abitare nella città di Segovia, dove aveva ereditato case e un orto, un giovane gentiluomo di assai nitido lignaggio e gentile aspetto, che si chiamava don Rui de Cardenas. Quella casa, che ereditava da uno zio, arcidiacono e professore all’Università di Coimbra, si trovava ben accosto e sotto l’ombra silenziosa della chiesa di Nossa Senhora do Pilar: e proprio di fronte, al di là del sagrato, dove cantavano i tre zampilli di un’antica fontana, c’era il cancello del tetro palazzo di don Alonso de Lara, ricchissimo nobiluomo dalle maniere poco cordiali, che, ormai in età matura e con la chioma quasi completamente ingrigita, aveva sposato una fanciulla celebre in tutta la Castiglia per il candore dell’incarnato, capelli color di chiaro sole, e collo di cigno reale. Don Rui era stato per l’appunto battezzato sotto la protezione della Madonna del Pilar, e ne era rimasto sempre un devoto e fedele osservante, sebbene, essendo di temperamento allegro e impetuoso, lo attraessero le armi, la caccia, le feste galanti, e persino a volte una serata chiassosa in taverna con dadi e boccali di vino. Per devozione e per le facilitazioni consentitegli da questa santa vicinanza, da quando si era trasferito a Segovia aveva preso la pia abitudine di rendere omaggio tutte le mattine all’ora della prima alla sua Divina Madrina per chiederle grazia e benedizione con tre Ave Maria.
All’imbrunire poi, anche dopo qualche gagliarda scorreria per campi e per monti con falchi o levrieri, vi ritornava ancora, per la salutazione del vespro, a mormorare soavemente un Salve Regina.
Tutte le domeniche comprava sul sagrato da una fioraia mora un mazzo di giunchiglie, o di garofani o semplicemente di rose che distribuiva amorevolmente con garbo e gran cura davanti all’altare della Madonna.
In questa veneranda chiesa del Pilar si recava pure tutte le domeniche donna Leonor, la tanto celebrata e incantevole moglie del signor De Lara, accompagnata da una arcigna governante, che aveva gli occhi più aperti e più fissi di quelli di una notturna civetta, e da due robusti staffieri che la scortavano e la presidiavano come due torri. Era talmente geloso questo signor don Alonso, che era soltanto perché glielo aveva severamente ordinato il confessore e per timore di offendere la Madonna, la sua vicina, che permetteva questa visita fugace; e lui rimaneva a spiare ansiosamente tra le stecche di una gelosia i movimenti di lei e la durata della permanenza. Tutti i lenti giorni della lenta settimana la signora donna Leonor li passava nel chiuso del palazzo di granito nero cinto da inferriate e non aveva, per distrarsi e respirare almeno nelle ore calde dei meriggi estivi, altro che un angolo di giardino verde scuro, incassato tra muri così alti, che al di là se ne vedeva emergere a mala pena qualche cima di triste cipresso. Ma quella breve sosta presso la Madonna del Pilar bastò a don Rui per innamorarsi di lei, follemente, una mattina di maggio, quando la vide in ginocchio dinnanzi all’altare sotto un raggio di sole, aureolata dei suoi capelli d’oro, con le lunghe ciglia abbassate sul libro d’ore e il rosario pendente tra le dita sottili, morbida e flessuosa e tutta bianca, di un candore simile a quello di un giglio dischiuso nell’ombra, più bianca in mezzo al pizzo nero e le pieghe nere delle sete sparse intorno al suo corpo pieno di grazia, rigide pieghe sulle lastre di pietra della cappella, che erano antiche pietre tombali. Quando, dopo un attimo di turbamento e di deliziosa emozione egli s’inginocchiò, fu meno per la sua Divina Madrina la Vergine del Pilar, che per quella straordinaria apparizione, di cui non conosceva né il nome né la vita, ma soltanto che per lei era pronto a dare vita e nome se ella avesse potuto concedersi per così dubbioso prezzo. Balbettando con ingrata fretta le tre avemarie con cui ogni mattina faceva la sua salutazione a Maria, prese il cappello, ridiscese in punta di piedi la sonora navata e si fermò sul portale, ad attenderla in mezzo ai mendicanti e ai lazzaroni che si spidocchiavano al sole. Ma quando, dopo un indugio, durante il quale don Rui sentì nel cuore un inusitato batter d’ansietà e di timore, la signora donna Leonor passò e si fermò a bagnarsi le dita nell’acquasantiera di marmo, i suoi occhi, sotto il velo abbassato, non si levarono su di lui. Con la governante dagli occhi molto aperti incollata alla gonna e in mezzo ai due staffieri come tra due torri, attraversò lentamente il sagrato pietra a pietra godendo indubbiamente come una carcerata l’aria libera e il sole schietto che l’inondavano. E grande fu lo stupore di don Rui quando la vide penetrare sotto la buia arcata tra due pesanti pilastri su cui gravava il palazzo, e scomparire attraverso una porta stretta coperta di catenacci. Era dunque quella la tanto celebrata donna Leonor, la bellissima e nobile signora De Lara…
Allora ebbero inizio sette lunghi giorni, che trascorse appollaiato su uno dei sedili di pietra di una sua finestra a scrutare quella nera porta coperta di ferro come se fosse stata la porta del Paradiso e di lì dovesse comparire un angelo ad annunciargli la Beatitudine. Finché finalmente giunse la tardiva domenica: e nell’attraversare il sagrato all’ora della prima, mentre si udiva il rintocco delle campane, con un mazzo di garofani gialli in mano per la sua Divina Madrina, incontrò donna Leonor che si stava affacciando tra i pilastri del buio portico, bianca, dolce e pensosa, come la luna di tra le nuvole. Quasi gli caddero di mano i garofani in una deliziosa agitazione che gli fece ansimare il petto come e più di un’onda di mare, mentre tutta l’anima in tumulto gli sgorgava fuori attraverso lo sguardo con cui la divorava. E anch’essa alzò gli occhi su don Rui, ma erano occhi tranquilli, occhi sereni, dai quali non trapelava curiosità e neppure la consapevolezza di uno scambio di sguardi con altri occhi tanto accesi e offuscati dal desiderio.
Il giovane gentiluomo non entrò in chiesa, per il pio timore di non prestare alla sua Divina Madrina l’attenzione che certamente le avrebbe rubato completamente colei che era solo umana, ma già padrona del suo cuore, e in esso divinizzata.
Attese impazientemente davanti all’ingresso in mezzo ai mendicanti e mentre i garofani appassivano per il calore delle sue mani ardenti gli sembrava ben lento il rosario che essa recitava. Donna Leonor stava ancora ripercorrendo la navata, che già lui sentiva nell’anima il dolce fruscio delle pesanti sete che strisciavano sul pavimento dietro di lei. La bianca signora passò – e il medesimo sguardo distratto, disattento e calmo, che essa posò sui mendicanti e sul sagrato, lo lasciò scivolare su di lui, o perché non comprendesse come mai quel giovane a un tratto si fosse fatto tanto pallido, o perché non lo distingueva ancora dalle cose e dalle forme indifferenti.
Don Rui si ritirò precipitosamente con un profondo sospiro; e giunto in camera sua accomodò devotamente davanti all’immagine della Vergine i fiori che in chiesa non aveva dedicato al suo altare. La vita divenne allora per lui un’amarezza continua per il fatto di avvertire così fredda e disumana quella donna, unica tra le donne, che aveva catturato e reso savio il suo cuore volubile e incostante. Sperava ancora, e pur prevedendo benissimo un disinganno, prese a far la ronda attorno ai muri molto alti del giardino – oppure, imbacuccato nel suo mantello, con una spalla appoggiata a una cantonata, a rimanere fermo per lunghe ore a contemplare le inferriate di quelle gelosie nere e spesse come di una prigione. Ma i muri non si aprivano e dalle grate non filtrava il minimo barlume di promettente luce! L’intero palazzo sembrava una tomba: lì giaceva una donna insensibile, anzi, al di là di quelle fredde pietre c’era un freddo cuore. Per sfogarsi compose con riverente cura, vegliando nottetempo sulle carte, strofe gemebonde, che non lo rincuoravano. Dinnanzi all’altare della Madonna del Pilar, sulle medesime pietre su cui l’aveva vista inginocchiata, a sua volta si metteva in ginocchio e rimaneva lì, senza pronunciare orazioni, immerso in un fantasticare dolce-amaro, in attesa che il suo cuore si rasserenasse e si rianimasse sotto l’influenza di Colei che di tutto consola e tutto placa. Ma ogni volta si rialzava più desolato che mai, senz’altra sensazione se non di quanto erano fredde e dure le pietre su cui si era inginocchiato. Il mondo intero gli pareva non contenere altro che durezza e gelo.
In altre luminose mattine domenicali incontrò di nuovo donna Leonor: ma gli occhi di lei erano ancor sempre disattenti e come immemori, oppure, quando incrociavano i suoi, era con tanta naturalezza, erano tanto sgombri da qualsiasi emozione, che don Rui li avrebbe preferiti offesi e balenanti d’ira o superbamente distolti con superbo disdegno. Certamente donna Leonor ormai lo conosceva – ma così lo conosceva anche la fioraia mora accoccolata davanti al suo cesto presso la fontana; o anche i poveri che si spidocchiavano al sole di fronte al portale della Madonna. Né don Rui poteva ormai pensare che essa fosse fredda e disumana. Era soltanto superbamente remota, come una stella che nel firmamento si volge e rifulge, senza sapere che in basso, in un mondo che essa non distingue, occhi che essa non suppone la contemplano, l’adorano e le affidano il governo del proprio destino e della propria sorte.
Allora don Rui pensò: «Lei non vuole, io non posso: è stato un bel sogno ed è finito, che la Madonna ci abbia in grazia tutti e due!».
E siccome era un gentiluomo molto discreto, dopo che ebbe accettato che essa fosse davvero così irriducibile nella sua indifferenza, non la cercò più, e neppure levò mai più gli occhi verso le grate delle sue finestre, e rinunciò persino a entrare in chiesa quando casualmente dal portale la scorgeva inginocchiata, con la testa dorata, tanto piena di grazia, china sul libro d’ore.