Streghe, un apologo

Streghe, un apologo

di Emanuela Lancianese

Aneta dice che sua madre raccomandava a tutti i suoi cinque figli di andare scalzi per almeno tre giorni al mese. Sentire la terra è necessario all’uomo per vivere. Alle streghe per fare magie. Anche gli uomini che raccolgono il miele a pieni nudi hanno il favore delle streghe. Aneta ha sognato suo padre, morto due anni fa, che varca la soglia di casa, sbandato, stanco, con una valigia: dice che torna tra otto giorni a mettere a posto le cose. È un sogno che le streghe orfane fanno qualche volta.
Le streghe subiscono un duro apprendistato, spesso violento: consumano scontri densi e fatali con le loro genitrici: “Brutta strega che non sei altro!” gridano le bambine streghe alle madri.
Le streghe che nascono dagli esseri umani non sanno di essere streghe, ma le bambine precoci e demoniache hanno i piedini di roccia e di cristallo. Ai bambini piace molto andare scalzi. Alle bambine soprattutto piace.


Vivono così ritirate che noi siam portati a credere che non esistano.
Le streghe adorano le amnistie e captano il buio delle mine. Per dare segno che ogni cosa si muove secondo un ordine di natura, agevolano il compimento di momenti fatali: sono loro che hanno permesso ai turchi di espugnare Bisanzio, lasciando aperta una piccola porta tra le mura.
Servono il diavolo, quando prende forma di silenzio, forma necessaria all’accortezza del durare.
Dove si consuma un’ora stellare lì ci sono le streghe. Si può dire ad alta voce che non si ha paura di loro: se esistono (come esistono) le si aspetta in stato di esaltazione.
Hanno appreso l’arte della medicina da Galeno di Pergamo che servì tre imperatori. Le si può chiedere che soffino di notte ai capezzali dei moribondi: un respiro di edera e grotta, di mandragora e rosmarino, di zolfo, vento ed araucaria: un bacio in bianco e nero, come Arletty in Deux Enfants du Paradis.
Le streghe, anche se non sono belle, sono sempre eroticamente potenti e garantiscono, silenziose e scarmigliate, durevoli e risananti erezioni. Le si può pregare che rallentino il tempo mentre il gatto nero si struscia alle loro vesti e sale sul petto dei malati eccitati. Possono far sì che, sospeso sopra l’abisso, l’infinito che scorre sopra le teste degli uomini si fermi in attesa di un rimedio alla fine. Le streghe del microcosmo sanno farsi filamenti di Dna intelligente che altera il genoma della pestilenza. Anemiche trascendenze non sanno quanto è caldo e forte il sangue dei moribondi dopo che un bacio ha schioccato in loro il sortilegio. Chi sopravvive non sa spiegare la vertigine dei sensi e il profumo disumano che ha sentito.
Il nome delle streghe sa di legno e di acqua: Melivile, Catrileia, Amarilli, nomi che significano ‘lago vicino a una palude’ o ‘fiume caldo’. Preparano gli unguenti sui bracieri degli essiccatoi. L’ingrediente segreto è il fumo degli alveari. Hanno fabbricato asole alle catene di montaggio, quando gli uomini andavano in guerra. Hanno inventato la tattica della terra bruciata, che rende più fertile i campi se i contadini la volgono in dono.
Le streghe dimorano nella nazione degli uccelli. I Manes disegnano uccelli sulle culle dei figli perché non volino via e sono le streghe che pongono sui bimbi invisibili ali di legno per farli andare sulla luna e ritorno. Quando le guide dell’Artico trovano le orme di una volpe bianca sanno che le streghe sono passate di lì. Ma loro si spostano soprattutto con i circhi: dormono nel carro della Sirena delle Ande o della nutrice di George Washington. Di tanto in tanto si esibiscono nei cabaret e cantano le canzoni jazz con l’arte che hanno appreso da Bessie Smith. Hanno la voce roca e si dipingono la faccia bianca come Petrolini; con gli occhi bistrati e un frac logoro fingono svenimenti e il medico dice loro che da questa malattia, la vita, o si guarisce o si muore.
Qualche volta ci si scontra con le streghe nei passaggi della casa, mentre ognuno percorre la sua direzione, troppo occupato per ricordarsi dell’esistenza dell’altro. Con l’urto irrompe la presenza. Le streghe sono nell’urto. Amano il suono delle campane a stormo che chiamano gli ultimi soldati alla difesa della città.
Le streghe sorvegliano la distanza tra gli alberi: quando la sega intacca il tronco, fanno cadere sulle elitre esauste degli insetti le loro sessanta lacrime verdi.
Le streghe non allattano dopo che il mestruo è tornato. Nessuna confonde il sangue con il latte. Se i bambini indios non cadono dai treni della morte è perché le streghe sostengono le loro soffici nuche mentre si addormentano.
Accanto a chi si siede sulle panchine dei cimiteri verdi, davanti alla tomba di un artista, c’è sempre una strega.
Salvano i manoscritti e le pergamene delle biblioteche in fiamme: Alessandria, Bisanzio e Damasco sono custodite nel retrobottega degli empori stregoneschi; di tanto in tanto restituiscono alcuni tomi perché tornino ad essere degli uomini che li hanno creati. Non tralasciano neanche gli scrittori ai quali donano alcune parole per dare al pensiero una forma che dura pochi secoli. Ascoltano - e un giorno pronunceranno - le ultime parole degli ultimi parlanti di una lingua scomparsa, affinché i morti non debbano pensare per l’ultima volta con parole che non verranno udite mai più. All’Ariosto hanno dato la parola profugo. Agli spagnoli hanno dato il termine destierro, distrazione dalla propria terra.
Nei loro salvadanai si conservano tutti i denti perduti da ogni essere umano. Ci sono denti da latte, incisivi di vecchi, molari dei denutriti e degli internati, dei segregati e dei poveri.


Ogni strega conosce l’arte di preservare la ragione dell’uomo in prigione, che ha visto gli occhi del direttore affacciarsi allo spioncino. Le streghe combattono le porte che hanno gli occhi e stanno nello sguardo delle finestre.
Le streghe sono i numi tutelari dei modesti: ispirano nelle anime borghesi l’esultanza e la lucidità che le fa raccogliere la sfida e la rivolta delle strade: le note di Amarcord imparentate con i valzer di Tchaikovsky. Le streghe ballano milonghe verdi per le strade di Tegucigalpa.
Stanno nella silhouette che si staglia nel buio di una porta, stanno nelle mura diroccate, nelle locande, nei bungalow dove vivono i randagi, vicine alla notte che sale lentamente, separate dal mondo da un uccello assonnato, dall’uomo inginocchiato, da un vecchio che beve, dal cecchino che attende tempi migliori. Sono i cani che vegliano la donna che si è addormentata ubriaca sulle rive di un fiume. E nelle torri rondinaie, nei colombari dove si riposano gli uccelli, stanno.
Non c’è in loro autocompiacimento per il male, per l’assassinio, per la fame. Non perdonano nulla al male, lo levigano, ne fanno fiume dove si gettano a capofitto, urlando il tonfo dei giusti.
Le sorelle Giussani, streghe piemontesi, hanno detto: “Diabolik uccide ma solo i cattivi”.


Le streghe si mimetizzano nei canneti con le alzavole e i bambù. Si sentono le loro risate confuse agli spari: a volte sembrano il pianto di un bambino, altre volte uno strano sghignazzo, o una bizzarra risata dei vecchi, o il biascichio di malvagi incantesimi, quando vogliono fare il verso a quelle del Macbeth.
Sfrecciano in impennata con un Mig 29; sono l’aria che si fa più leggera intorno alla testa del bambino che ride.  
Di devozione sconfinata amarono i fratelli Wright anche se non furono i primi a volare, e Thomas Edison che non fu il primo ad accendere una lampadina a incandescenza.  
Le streghe raccolgono ciò che cade dalle dita tremanti e danno origine a catastrofi, come i tre uomini che cercarono un dio nella paglia. Stanno nel pozzo dei pastori che abitano i pianori desolati e danno da bere all’assetato. Hanno una vista molto acuta che le fa individuare e abitare i paesi appena abbandonati: i guadi che danno sui pietrischi, le statue corrose, il vento che vi passa in mezzo con un ruggito di belva distolta dal pasto.
Adorano la pace della severità. Diffondono il verbo del dio sconosciuto venerato tra gli dei greci e ne annunciano la resurrezione nell’Areopago per esercitare la loro eloquenza. Accarezzano nel sonno gli occhi incavati nelle orbite dei malati di mente, ai morti donano un sorriso calmo e una assorta meraviglia. Sfilano in processione con gli incatenati di Santa Rita, amplificando gli echi delle catene lungo il pendio delle colline, la violenza di quelli che hanno vissuto il tumulto, la prigione o l’indigenza.


Le streghe sono ambosessi ma non hanno un curriculum in formato europeo. Non hanno neanche un profilo sui social. Penetrano nei condomìni di ogni periferia, blocchi lunghi cento metri, alti dieci piani, dove occhieggiano quattrocento finestre di un primo parallelepipedo. Sentono con dispiacere il sudore e il tanfo acre filtrato dalla corruzione della materia umana, che si svelena appena nella paglia e nella tela cerata delle baracche di Dharan. I loro migliori amici sono quelli che hanno una sequela di guai e di debiti: anche se non hanno denaro, si prodigano in piccoli gesti di sovrannaturali che non salvano completamente dalla morte, dalla sconfitta, dal dolore: sono aurore che non svegliano il mondo. Concedono agli uomini la facoltà di deporre la ragione nel sesso o nel peso del sangue, pur abolendo le circoncisioni dei pagani.
Certe volte fingono di capire tutti: fanno di sì col capo, guardando teneramente l’interlocutore nel vuoto delle parole, ma la loro mente sta altrove.      


Cose donate dalle streghe ai bambini: il sostegno alle nuche stanche, i piedini forti, i raggi di sole, ali invisibili.
Cose donate dalle streghe agli uomini: il respiro, le costellazioni, i libri, l’acqua, gli inni, il sesso e la parola, la latenza delle cose inoperose: il succo dolce delle more e le tende dei rami intrecciati, la sensazione che ci stiamo tutti dentro questo momento, dentro una cosa che fa tremare, estratta da una ferita verticale per noi che credevamo di sapere tutto dell’amore.

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Sono nata a Roma nel 1971. Ho studiato Scienze Politiche alla Luiss e Lettere Moderne all’Università di Tor Vergata. Mi occupo di giocattoli antichi. Mi interessa la poesia, la letteratura e l’arte per bambini che, a parte la bellezza, son loro che salveranno il mondo. Alcuni miei scritti si trovano nel “Repertorio dei matti della città di Roma”, Marcos Y Marcos; e nella raccolta “L’ultimo sesso al tempo della peste”, Neo Edizioni.