Il luogo perfetto (del racconto), di Alfredo Zucchi

Il luogo perfetto (del racconto) è il mistero

di Alfredo Zucchi

I nove racconti di Un luogo perfetto di Carlos Dámaso Martinez (Arcoiris, 2013, traduzione di Loris Tassi e Lorenza Di Lella) si muovono nella zona di confine tra poliziesco e fantastico. Questo solco si nutre della figura del mistero: il nodo che non si scioglie, che apre invece di chiudere – e potremmo essere dall’una o dall’altra parte, indifferentemente. Dove siamo?, si chiedono spesso i personaggi del libro.

Questo luogo di confine è stato canonizzato da Borges come letteratura speculativa e si nutre, tra le altre cose, dell’interferenza tra realtà e finzione: così, in racconti come “L’amore cambia”, “La nebbia”, “Kadmon” e “Taxi” sono le storie raccontate da personaggi secondari, o le relazioni dirette con opere precedenti e citate nel testo (è il caso del racconto di Onetti “Il volto della disgrazia” in “L’amore cambia” e de “L’aleph” di Borges in “Kadmon”) a mettere in moto la biforcazione propria del mistero. Queste storie, che i personaggi di Un luogo perfetto ascoltano o hanno letto, generano aspettative, le quali a loro volta sembrano puntare a una direzione, uno scioglimento del nodo – scioglimento che, puntualmente, non si verifica. Accade invece un ribaltamento della figura dell’ironia tragica: se nel teatro greco classico lo spettatore è coinvolto e purificato per il fatto di rivivere eventi traumatici di cui conosce già la chiusa, nei racconti di Dámaso Martinez il lettore, spinto a sodalizzare con i personaggi principali, si ritrova depistato da ciò che sa o pensa di sapere.

“Fui invaso dalla stessa sensazione di paura e sorpresa che stavano provando tutti gli altri. Ma forse con un’aggravante, ero uno dei pochi ad aver ascoltato il racconto del Dottor Foster e mi era impossibile non pensare che in un modo o nell’altro quell’uomo c’entrasse con quanto stava succedendo. Lo cercai dappertutto e non lo trovai. [...] Capii subito – con una certezza che nasceva dal fondo del mio petto – che il Dottor Foster e la signora Bermúdez erano scomparsi come l’acqua del fiume nella nebbia e nella notte.”
(“La nebbia”, il corsivo è mio)

Il dubbio che invade i personaggi non ha, a differenza di Borges, natura principalmente intellettuale. I personaggi di Dámaso Martinez si trovano in situazioni non ordinarie: in vacanza su una spiaggia deserta o lungo la costa di un fiume in inverno, sono in viaggio, si nascondono per consumare relazioni clandestine. In queste condizioni eccezionali o esotiche – il caldo e l’eros dirompente, il freddo e un albergo stranamente deserto, il dormiveglia in un autobus ammutinato, una stazione ferroviaria di provincia in un paese straniero – è il corpo stesso, le sue reti di agenti sensoriali che informano il cervello sullo stato dell’arte della realtà lì fuori, ad andare in cortocircuito, a fornire dati ambigui, dubbi. È la realtà stessa, in quelle condizioni, a depistare i personaggi.

“Quando arrivarono agli ultimi gradini, Marisa si aggrappò al braccio di Alfredo e si preparò a gridare e mettersi a correre, qualora quei tre li avessero aggrediti. Ma non accadde nulla, uno degli uomini si scostò e loro passarono rapidamente.”
(“Saint-Denis”)

Il grande pregio di Dámaso Martinez è di abitare quel luogo perfetto che è il mistero con naturalezza: una prosa elegante e misurata, un’atmosfera narrativa complice e confortevole – per il lettore e per i personaggi – come un inganno.