Lot, di Bryan Washington

Autore: Bryan Washington Titolo: Lot Editore: Racconti Edizioni Traduzione: Emanuele Giammarco pp. 226  Euro: 18

Autore: Bryan Washington
Titolo: Lot
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione: Emanuele Giammarco
pp. 226 Euro: 18


di Debora Lambruschini

Stratificato. La prima parola che mi viene in mente pensando a Lot, di Bryan Washington, è “stratificato”. Tanti sono gli spunti, le chiavi di lettura con cui potersi confrontare nel corso della lettura, fino ad arrivare idealmente allo strato primario, al cuore di questo libro dalla forma ibrida, tra romanzo e raccolta di racconti, un centro della narrazione che riassumo ancora in una parola, identità. Lot è un esordio narrativo che è valso al suo autore numerosi premi e riconoscimenti e che è arrivato in Italia grazie a Racconti edizioni, da sempre attenta a dare spazio alle voci più innovative, sperimentali, vibranti, della narrativa breve. Ed è un testo che si muove al confine tra due forme letterarie, riassumendo in sé caratteristiche di entrambe, piegando la narrazione alle necessità della storia, delle voci che la compongono, quel mosaico di esistenze che, più di ogni altra cosa, sono la parte viva e pulsante di questo libro: dal romanzo deriva lo slancio verso una narrazione ampia, lo sviluppo di una vicenda che sovrasta le altre voci del libro e ne è il filo conduttore; dal racconto – da un certo tipo di racconto, almeno – Lot ricava l’interesse per il frammento, l’istante, la fotografia letteraria di momenti precisi di innumerevoli vite che, si diceva, compongono il mosaico di questa narrazione, con le loro sporadiche epifanie e rivelazioni, lampi che squarciano la pagina. E, ancora, quel desiderio di lasciare ampi spazi vuoti nella narrazione che sarà compito del lettore colmare, con la stessa libertà con cui ci si concentra su un’immagine, un oggetto, un sapore – la narrazione è ricchissima di riferimenti al cibo – per trovare la propria personale chiave di lettura. Washington, con una lingua priva di orpelli e artifici, ma che a tratti sa farsi quasi lirica, compone un mosaico di esistenze ai margini, raccontando gli Stati Uniti delle minoranze, nella Houston dei quartieri popolari, di quelle stesse zone che danno il nome a ogni capitolo, degli immigrati. E forse la cosa più sorprendente è la capacità di maneggiare una materia tanto attuale e complessa senza restare invischiato nella retorica, senza cedere a sentimentalismi o banali semplificazioni. Eppure in Lot il tempo storico è solo un dettaglio marginale, conta molto di più lo spazio preciso entro cui queste esistenze si consumano – termine che non scelgo per caso – quasi a suggerire l’idea che un certo tipo di conflitto, di difficoltà, sono in fondo sempre le stesse, da un decennio all’altro, perché mai risolti. È il colore della pelle, l’appartenenza a una certa minoranza (soprattutto neri e latinoameicani), a determinare a quale America si appartiene. Un Paese che viaggia su due binari e, non a caso, è proprio vicino a essi che queste vite si svolgono. La narrazione quasi sempre in prima persona maschile, la scrittura cruda, infarcita di slang e richiami culturali, con cui la traduzione di Emmanuele Giammarco ha dovuto fare i conti per restituire al lettore italiano quella complessità linguistica che è specchio di una moltitudine di esistenze, un melting pot linguistico e culturale ben reso sulla pagina.
In questa Houston di case popolari, macchine scassate, quartieri di droga e degrado, periferia di una città che sembra lontanissima, Bryan Washington non cala i suoi personaggi su un ideale sfondo narrativo, piuttosto è come se fotografasse quegli uomini e quelle donne colti nella realtà del proprio quotidiano, senza edulcorare nulla o, al contrario, regalare al lettore improbabili catarsi. C’è poca consolazione in queste storie, ma c’è molta umanità, che l’autore racconta svincolata da intenti di riflessione politica e sociale, verso cui, semplicemente, proietta il lettore. Manca l’urgenza e la forza politica di Colson Whitehead, James Baldwin, Angela Davis, Ta-Nehisi Coates, solo per citare alcuni tra i più importanti intellettuali che si sono confrontati ognuno a modo proprio con la questione razziale, eppure anche il testo di Washington, pur svincolato da tali intenti, non si sottrae alla situazione civile, restituendola con il racconto dei fatti.  

Tornando alla narrazione pura, ciò che l’autore calibra magistralmente sono i silenzi: le parole che mancano, le distanze, l’incapacità di comunicare. Alcuni silenzi sono così ingombranti e assoluti che sembrano farsi corpo:

Riempivamo gli angoli con il nostro silenzio. E questo filtrava nel corridoio. Avresti detto che eravamo sereni. Ci avevano costruito accanto un centro commerciale, e le cantilene degli ubriaconi squillavano attraverso le finestre. Ma in generale era più il silenzio. Di quelli che ti sigillano le orecchie.
 (“610 North, 610 West”, p. 42)

I silenzi di figli che non sanno come venire a patti con la propria identità o colmare quella distanza generazionale in cui sono avvolti; i silenzi dentro cui si cela la solitudine, la disperazione per l’abbandono, la paura che attraverso la parola quello che siamo diventi davvero reale e rompa definitivamente quei fragili equilibri su cui poggia un’esistenza; la parola ha un potere straordinario, da forma e dignità alle cose o può distruggerle. Il nome stesso del protagonista che fino alla fine non viene pronunciato – e mi ricorda in questo, fra tanti, “Il nome della madre” di Roberto Camurri, una mancanza così totalizzante da non riuscire a farne il nome, fino alla fine – e il senso di intimità che ne deriva, lo svelamento, scoprirsi nudi e vulnerabili quando il nostro nome scorre sulla bocca di un altro.
I silenzi sconcertati, per un abbandono che non doveva sorprendere più di tanto forse, eppure quando infine si concretizza davvero lascia ugualmente basiti, a pezzi:

Quando nostro padre si era defilato per sempre, si era portato con sé ogni suono della casa. Mamma non avrebbe parlato per un altro paio di settimane, almeno non con noi; così le ultime parole che gli aveva dedicato erano le uniche ad aleggiare nell’aria.
(“Lot”, p. 110)

Ecco, insieme ai silenzi, alle parole mancanti, sono le assenze l’altro grande perno della narrazione: famiglie che si disgregano, un pezzo dopo l’altro, fantasmi che aleggiano tra le stanze di cui si conserva ancora, ostinato, il ricordo. Uomini che fuggono dalle proprie responsabilità, padri assenti; figli che si allontanano, per sopravvivere, per mettere una distanza con il luogo d’origine; uomini incapaci di restare perché vorrebbe dire svelarsi, completamente, e rendere concreta una possibilità.

 

Ecco quanto è facile andarsene da una vita. Me l’ero sempre chiesto, e ora lo sapevo.
(“Navigation”, p. 145)

 

C’è, a tratti, un vago senso di possibilità che pervade questo romanzo-racconto; possibilità effimere, fugaci e troppo fragili per il luogo cui appartengono da poter essere considerate davvero. Ci si ripiega su se stessi, allora, si affonda ogni giorno un po’ di più, mentre tutto intorno sembra cambiare – si badi bene, non per forza migliorare. Cambia il quartiere, che inizia a popolarsi di bianchi e di nuove case e negozi, cambia la città, le macerie dell’ultimo uragano (Harvey, nel 2017) ben evidenti, ma, ancora una volta, anche il mutamento corre su due binari diversi, in una città che ben esemplifica le contraddizioni di una società tutta:

Houston sta cambiando muta. […] Ma dopo la tempesta ci hanno sbattuti fuori anche a noi: se non puoi permetterti la ricostruzione, allora te ne vai. Se hai prosciugato il tuo conto per ricostruire, allora non puoi rimanere. Se non puoi permetterti di andartene, e non puoi permetterti di rimettere a posto la tua vita, allora quello che devi fare è restare a guardare il tuo quartiere mentre cresce via lontano da te.
(“Elgin”, p. 207)

 

E così quello di Washington è un canto disperato, illuminato da squarci di possibilità e cambiamento. È storia di un luogo e di individui, di comunità e famiglia. Di una periferia che somiglia a un ghetto, raccontata con cruda onestà, per quello che è, senza false mitizzazioni o eccessi romantici, ma in tutta la sua brutale realtà.  Di un protagonista senza nome, che cerca di venire a patti con se stesso, con la propria sessualità, con il disgregamento di quello che conosceva, in una sorta di Bildungsroman feroce, ma non privo di bellezza, perfino di ironia e lirismo. È fuori dal tempo e, allo stesso modo, attualissimo, perché tali sono gli spunti della narrazione. Ma, soprattutto, Lot è ricerca della propria identità, nelle varie accezioni del termine: identità come individui e cittadini che cercano di mediare fra due culture, identità come giovani che faticano a trovare un posto nel mondo, identità come scoperta e accettazione della propria omosessualità.