Su commissione, di Jaume Cabré

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Da Febbraio è in libreria Quando arriva la penombra, di Jaume Cabré, pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Stefania Ciminelli. Una raccolta di racconti che toccano nel profondo e che intavolano un dialogo costante tra di loro e con i grandi romanzi dello scrittore catalano. Grazie alla consueta maestria che l’ha reso uno degli scrittori più popolari d’Europa, Cabré scrive un libro avvincente, con un tocco di umorismo nero, atmosfere da thriller e sorprendenti incursioni nel fantastico, il tutto racchiuso in una struttura circolare e compatta. Raramente un libro popolato da personaggi che vivono ai margini, tutti più o meno colpevoli, è stato così pieno di vita.

Cabré, uno dei più grandi autori della letteratura catalana. — La Repubblica

Cabré dà sfoggio di grande perizia stilistica e compositiva. — La Lettura

Cattedrale pubblica uno dei racconti, per gentile concessione dell’editore.

Su commissione

Beh, dunque, perché io direi che i soldati uccidono d’ufficio. I più consapevoli sono i soldati di fanteria: possono vedere in faccia il nemico e sentire i pianti dei bambini. Quelli che lanciano le bombe non riescono neanche ad avvertire la puzza di bruciato che le loro azioni provocano. Ma tutti uccidono in modo impersonale. Quelli che mi assomigliano di più sono i cecchini: ogni sparo è un morto, praticamente, con tanto di dedica, personalizzato. Ma sempre con la sicurezza della distanza e con l’aiuto di un proiettile. Vedono la vittima, ma non hanno alcun bisogno di conoscerla. Io no. Io uccido da pari a pari: un lavoro di prossimità. Uccido persone con nome e cognome che prima ho guardato negli occhi. Il mio lavoro lo richiede. Non posso permettermi alcun errore, la mia reputazione ne risentirebbe di colpo: è un mestiere molto crudele questo, perché, non ci crederete, ma c’è una concorrenza durissima nel mio settore. Quindi, per non dovermi preoccupare, non mi posso mai permettere un errore. Mai. Sì, sì, la capisco; ma no: nessun rimorso. Il mio è un puro atto professionale. Senta, ho ucciso uomini, donne, bambini, cani, cavalli, anziani; di tutto, con prevalenza di uomini di mezza età. Non ho mai pensato che uccidere un cassiere chiacchierone fosse diverso dal neutralizzare un ragazzino di dodici anni la cui esistenza disturbava profondamente i piani del mio cliente.
Certo, nella vita c’è gente che dà fastidio; io risolvo il problema e basta. Perché li guardo negli occhi? È la mia garanzia. Ognuno ha il proprio stile: il mio si basa sull’assoluta certezza che è quello il mio obiettivo. Prima, nelle settimane che precedono l’atto, ne studio dettagliatamente la fisionomia, lo seguo nella sua vita normale e a volte ci scambio anche due parole. Certo: è quello il momento in cui lo guardo negli occhi. E mi sento come un ragno gigante. Ma che dice: la vittima non sa né di essere vittima né che io le ho già teso la trappola da cui non potrà mai scappare. Perché compassione? Quella persona disturba il mio cliente e basta. E chi paga avrà i suoi motivi, su cui io non ho niente da dire. Mi limito a far bene il mio lavoro. Beh, come dire… come tutti quelli che svolgono lavori simili, vivo bene, senza ristrettezze, ma forse un po’ troppo solo. Ho delle donne, ma a volte mi punge il desiderio di un caminetto acceso, di una mano che mi accarezzi la nuca, mentre lascio passare il pomeriggio senza altra pretesa se non quella di osservare le rughe impercettibili che ci appaiono sul viso. Sì, sono una persona molto sensibile: so che di vita ce n’è una sola, e per questo do tanta importanza ai dettagli nelle relazioni, per esempio. Poco tempo fa ho deciso di andare a vivere con una delle mie amiche. Sì, sì, convivenza coniugale, sì. È una gran signora, che non mi chiede dove vado quando dico che starò fuori un mese intero per lavoro. E poi, ha la passione dell’arte quasi quanto me. Oh, pensi che a casa ho le pareti piene di tele, soprattutto contemporanee. E adesso le dirò un segreto: in un angolo discreto ho La paysanne di Millet. Esatto: quella che è diventata famosa per… No, no: sono tranquillissimo. È una piccola fortuna che mi obbliga a tenere un sistema sofisticato di allarme a casa. Me lo posso permettere, comunque.
Due all’anno. In qualche annata eccezionale, tre interventi. No, no: è più che sufficiente. Di più, no, non potrei vivere: pensi che per ogni intervento ho bisogno di qualche settimana di studio teorico e poi di lavoro sul campo. E ancora, sessioni di prova e di ridefinizione. Poi l’azione e il ripiegamento, che non voglio fare in modo frettoloso. Il tutto richiede tre o quattro settimane. Perfezionista? Senza ombra di dubbio. Ma in questo mestiere o sei perfetto o ti beccano al primo incarico. No, non vivo sempre sulle spine; non ne varrebbe la pena. Sono tranquillo, prima di tutto con me stesso; poi con quelli che mi circondano e a cui voglio bene e infine con il mondo. E non ho paura di rappresaglie, perché il mio sistema di ripiegamento è così efficace che nessuno sa della mia esistenza. Voglio dire che nel caso di quell’affabile signora anziana di Delhi morta per un attacco di cuore, nessuno della sterminata e rumorosa famiglia sospetta remotamente che sia stata assassinata. Per non parlare di quel bambino la cui sola esistenza era una complicazione e che ha avuto la disgrazia di affogare un giorno in cui sulla spiaggia c’era la bandiera rossa. Ovvio: il servizio di sicurezza della famiglia si è beccato la strigliata del secolo perché il bambino, che era una peste, era sfuggito al loro controllo, nessuno sapeva dov’era. E intanto il ragazzino inghiottiva acqua con gli occhi sbarrati perché io lo tenevo sotto per le caviglie e non lo lasciavo riemergere. Ci misero due giorni a recuperare il cadavere, perché il mare mosso gioca brutti scherzi. Esatto! Per ogni singolo caso devo creare una situazione, devo inventare una specie di romanzo in cui la morte desiderata presenti dei parametri di accettazione che non lascino spazio a dubbi né a sospetti. Pensava forse che andassi in giro con un fucile di precisione e tutto il resto? Ma per l’amor del cielo, siamo nel ventunesimo secolo! Parlando sinceramente, la linea tra la vita e la morte è molto sottile. Io mi occupo di ritoccarla in certi casi e lo faccio in modo pulito. Il che non vuol dire, se siamo dei buoni professionisti, che le morti ritoccate siano innocue. Non siamo mica al macello, signore. Se la trama che ho creato richiede una morte raccapricciante, allora la morte sarà raccapricciante, e non ho problemi a dire che non tutto si può risolvere con opportuni attacchi di cuore. Senta, padre: sono convinto che il mio bagaglio culturale mi aiuta a fare un lavoro pulito, preciso e incontrovertibile. Il che non vuol dire che mi piaccia strafare: non oltrepasso i limiti e non gioco con la messa in scena. Gli assassini che lasciano guanti, carte da gioco e firme di altro genere li trovo teneramente patetici, sembrano usciti da un giallo di Agatha Christie, e l’unica cosa che vogliono, in fondo in fondo, è essere scoperti perché la gente li ammiri. La mia sfida consiste nel non esistere per nessuno. Non esisto neanche per i miei clienti. Come capirà, adesso non starò qui a rivelarle i metodi, così, al plurale, che seguo per mettermi in contatto con loro e loro con me. Ma le posso dire che non mi hanno mai visto in faccia e che non conoscono il mio nome né la mia voce; ignorano anche il numero del mio conto corrente. E la trappola che ho costruito, diversa per ogni intervento, la distruggo appena ho finito un lavoro. Perché qualcuno di questi clienti potrebbe trasformarsi in una minaccia per me nel caso in cui le cose per lui prendessero una brutta piega e volesse scaricare la responsabilità. Mi blindo su tutti i fronti, per questo posso dormire tranquillo. Mi scusi, ma io non parlo mai di vittime: parlo di obiettivi. Pietà, dice? Pietà? Sia chiaro che non ho nulla contro i miei obiettivi: anzi, gli sono riconoscente perché mi permettono di comprare quel Pollock su cui ho messo l’occhio da tempo. A parte questo, nei loro confronti non ho alcun tipo di obbligo, né morale né economico né sentimentale.
Beh, ho lavorato in tutti e cinque i continenti e sempre con queste premesse. Perché le racconto tutto questo? Sa padre? Arriva un momento in cui uno pensa di ritirarsi definitivamente, e allora, gli piaccia o no, ha voglia di aprirsi, di raccontare qualcosa di se stesso, di uscire dal guscio anche solo per un momento, prima di trasformarsi in un cittadino onesto che apre una galleria d’arte per intrattenersi nelle sue lunghe giornate. E tutto quello che le ho detto del caminetto acceso e del lasciar passare il tic-tac del tempo. Perché un confessore è sempre la garanzia più chiara dell’inviolabilità del segreto. Che vuole che le dica, no, non sono pentito. Ma santo cielo, come vuole che mi penta di quello che è l’orgoglio della mia vita? Oh, ma io non cerco l’assoluzione. Cerco solo delle orecchie che sappiano ascoltare. Lei è l’eccezione al mio modo di agire, se consideriamo le situazioni che ho creato finora. Non avevo mai parlato di me, ma dal momento che il lavoro che sto svolgendo è l’ultimo di una lunga e fruttuosa attività professionale, mi sono permesso questa frivolezza. No, non ho paura che lo vada a raccontare a nessuno perché credo fermamente nelle rigorose leggi del segreto confessionale. D’accordo, lei potrebbe anche commettere l’orribile peccato di raccontare i segreti di confessione, sì. Su questo ha ragione. Non sarebbe la prima volta, a quanto ne so. Non c’è bisogno di essere credenti per saperlo. Che vuole che le dica: sono una persona informata. Perché sono così tranquillo? Perché è proprio lei il mio ultimo obiettivo professionale, padre. Non voglio offenderla, ma spero che comprenda che non posso rivelarle il nome del cliente che mi ha commissionato l’incarico.
Le dico di no; non insista. Però una cosa gliela voglio dire: se lo sapesse, farebbe fatica a crederci. Possibilità? Non ci provi neanche a mettersi a correre, non ha via di scampo, padre. Lei è il mio punto finale. Addio, è stato un piacere.

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