Lo scrittore microscopico, di Alfredo Zucchi

Lo scrittore microscopico
 

di Alfredo Zucchi

Nello show televisivo ‘Borges por Piglia’, Ricardo Piglia racconta il suo primo incontro con Jorge Luis Borges: in occasione di un’intervista per un giornale universitario, l’autore di Finzionilo accoglie nel suo appartamento di Buenos Aires. Spinto dall’affabilità del vecchio, Ricardo Piglia – allora fervente carveriano – si arrischia a fargli notare che l’ultimo paragrafo del racconto ‘La forma della spada’ (Finzioni, Einaudi, 1955) andrebbe tagliato: il commento del narratore alla fine, dice il giovane Piglia, non fa che sottolineare e ripetere un evento decisivo nella chiusa del racconto, evento i cui elementi fondamentali sono già insinuati nei due paragrafi precedenti. L’ultimo paragrafo del racconto sarebbe, secondo una logica che risale alla teoria dell’iceberg di Hemingway, un pleonasmo nocivo: “Ciò che più conta non va mai detto".

Proprio in questa ridondanza informativa, invece – in quest’attitudine al commento dei narratori borgesiani – si trova uno degli elementi essenziali della maniera con cui Borges costruisce i propri racconti. Ricardo Piglia dice, con un’iperbole, che nel ventesimo secolo ci sono principalmente Borges e Kafka: con questo, più che sminuire gli altri grandi autori novecenteschi, intende sottolineare come Borges e Kafka siano gli inventori (i formalizzatori o perfezionatori) dei due unici metodi di finzione letteraria prodotti nel Novecento. La frase di Piglia dovrebbe dunque suonare così: di nuovo, di originale, riconoscibile e paradigmatico nel ventesimo secolo ci sono solo ‘il metodo kafkiano’ e il ‘metodo borgesiano’ – in particolare per quanto riguarda il racconto.  
Cos’è il metodo borgesiano? La questione della ridondanza informativa, dell’attitudine al pleonasmo e al commento, rivela il primo elemento: il racconto borgesiano nasce dall’unione della finzione narrativa con il saggio. La mescolanza dell’elemento narrativo con quello saggistico caratterizza la tendenza del narratore borgesiano a sottolineare e spiegare, a speculare precisamente su ciò che, secondo Hemingway, non va mai detto.
Qui sta la chiave. Borges definisce la sua opera come letteratura fantastica; Ricardo Piglia, suo grande lettore, corregge ed espande la portata della definizione: letteratura concettuale o non empirica, finzione speculativa. Come Marcel Duchamp, come il Mr. Teste di Paul Valéry, aggiunge Piglia: nei racconti di Borges si riflette su cosa sia una finzione – di più, su come si costruisca una finzione. Ecco il secondo elemento: la mescolanza tra saggio e racconto racchiude e feconda la tensione tra finzione e realtà.
La differenza tra le dimensioni della finzione e della realtà in Borges è netta: le forze fittizie (le illusioni, le idee e ogni altro oggetto ideale) hanno natura ambigua, non sono né vere né false, diversamente da quelle reali. Da questa differenza fondamentale viene fuori la tensione tra le due dimensioni.
E cos’è una finzione? È un testo scritto, un’opera letteraria. Il metodo borgesiano si costruisce intorno alla relazione, all’interferenza tra un testo scritto, un’opera letteraria, e la realtà. Il racconto diventa quel campo di gioco o laboratorio in cui le due dimensioni sono messe a reagire chimicamente. (Non è irrilevante, in questo senso, che i personaggi dei racconti spesso portino nomi anagrafici reali: lo stesso Borges o il suo amico scrittore Bioy Casares). 
È il caso di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, racconto che apre Finzioni e che rappresenta in modo esemplare il metodo borgesiano.
Una notte Bioy Casares, discorrendo di un suo progetto di romanzo, cita il detto di uno degli eresiarchi di Uqbar:

“Gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini.”

La fonte della citazione, tuttavia, risulta difficilmente verificabile. Borges, dopo lunghe ricerche, per caso, riesce a risalire alla fonte. Si tratta di un’enciclopedia redatta da una società segreta, il cui oggetto è il pianeta fittizio di Tlön: la sua storia, la geografia, le sue lingue, la sua letteratura e filosofia. Tlön è la finzione suprema, nella misura in cui, a differenza della terra, è il prodotto dell’immaginazione e dell’ingegno umani. La sua influenza sul mondo degli uomini diventa così forte da impossessarsene, progressivamente, per intero.

“Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con l’apparenza di ordine – il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo – per mandare in estasi la gente. Come, allora, non sottomettersi a Tlön, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato?”

L’intrusione della finzione nella realtà, si diceva. In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius l’oggetto vettore di tale movimento è un testo scritto, o meglio: un’opera letteraria il cui oggetto è fittizio. Il movimento è dunque dalla finzione alla realtà. Questo è, in effetti, il caso più ricorrente nei racconti di Borges, in particolare nei suoi due libri più importanti, Finzioni e L’aleph: “L’accostamento ad Almotasim” è la recensione reale di un poema fittizio; nel noir “La morte e la bussola” l’elemento chiave è il libro fittizio Storia della setta degli Hassidim.

Eppure ci sono esempi, nell’opera borgesiana, del movimento inverso. Il caso estremo è quello di ‘Pierre Menard, autore del Chisciotte’. In uno dei momenti parodici più intensi della letteratura moderna, Pierre Menard riscrive, alla lettera, i capitoli IX, XXII (in parte) e XXXVII della prima parte del Don Chisciotte di Cervantes. In questo caso, l’oggetto vettore dell’intrusione tra le due dimensioni è un’opera letteraria reale, e il movimento è opposto e più complesso: dalla realtà alla finzione.

“Ciò che più conta non va mai detto”, dice Hemingway. “Ciò che più conta va detto, ripetuto, contraddetto, sdoppiato” direbbe Borges.

Chiudiamo allora con un esercizio ipotetico, un gioco. Alla luce delle differenze rilevate, come scriverebbe Hemingway il ‘Pierre Menard’?

La risposta è più semplice del previsto: il ‘Pierre Menard’ di Hemingway sarebbe nient’altro che il Don Chisciotte di Cervantes. In altre parole, non lo scriverebbe, o semplicemente lo copierebbe. Quello scarto o slittamento che si produce tra finzione e realtà, slittamento di cui ‘Pierre Menard, autore del Chisciotte’ è forse l’esempio più clamoroso, è il succo del metodo borgesiano – metodo che ha aperto strade prima di allora precluse alla narrativa. In questo senso, mi pare, Piglia dice che ci sono principalmente Borges e Kafka nel ventesimo secolo.

C’è tuttavia un altro distinguo da fare. A differenza di scrittori come Hemingway e Kafka – i quali hanno maneggiato il racconto come il romanzo, usando poetiche differenti nelle due forme, poetiche la cui differenza è fondamentale da un punto di vista narratologico: un racconto non solo non dice le cose alla stessa maniera di un romanzo, ma dice cose diverse – Borges ha scritto unicamente forme brevi: poesie, saggi e racconti. La brevità, la densità, la precisione sono elementi vitali per l’argentino: Borges è, in questo senso, uno scrittore microscopico. Ha senso allora richiamare una sentenza che l’autore di Finzioni ha ripetuto spesso:

“È uno scrittore realista, non dà ordine al mondo.”

Il referente di questa frase, lo scrittore realista, nell’ottica borgesiana, non è Hemingway ma Joyce, in particolare il Joyce del flusso di coscienza (anche, dunque, quel caraibico di Faulkner). Questa frase racchiude una dichiarazione identitaria, un manifesto per opposizione: sul vertice opposto di Borges ci sono, da un lato, la forma narrativa estesa in sé, il romanzo; dall’altro quella tecnica narrativa che fa del caos la sua misura, quello stream of consciousnessche “non dà ordine al mondo”.
In questo, tuttavia, Borges è ingiusto nei confronti di Joyce: il monologo di Molly Bloom nell’ultimo capitolo dell’Ulisse non è meno misurato dell’ ‘enumerazione di un congiunto infinito’ che chiude L’aleph (El aleph, Alianza Editorial, Madrid, 1971).

Tesi sul racconto, di Ricardo Piglia

Tesi sul racconto

Tratto da Formas breves di Ricardo Piglia
Traduzione di Alfredo Zucchi

I

In uno dei suoi quaderni, Anton Čechov annota quest’aneddoto: «Un uomo, a Montecarlo, va al Casinò, vince un milione, torna a casa, si suicida». La forma classica del racconto è condensata nel nucleo di questa narrazione futura e mai scritta.

In opposizione a una struttura prevedibile e convenzionale (giocare-perdere-suicidarsi), la trama qui si pone come un paradosso. L’aneddoto, infatti, tende a svincolare la storia del gioco da quella del suicidio. Questa scissione è un elemento chiave per definire il carattere duplice della forma-racconto.

Prima tesi: un racconto narra sempre due storie.
 

II

Il racconto classico (PoeQuiroga) pone in primo piano la storia 1 (la narrazione del gioco) e costruisce in segreto la storia 2 (la narrazione del suicidio). L’arte del cuentista consiste nel saper cifrare (introdurre nascondendo) la storia 2 negli interstizi della storia 1. Una narrazione visibile nasconde una narrazione segreta, raccontata in modo ellittico e frammentario.

La sorpresa si produce quando la storia segreta viene in superficie.

 

III

Le due storie si raccontano in modo diverso. Lavorare con due storie vuol dire avere a che fare con due distinti sistemi di causalità. Uno stesso evento entra simultaneamente in due logiche narrative antagoniste. Gli elementi essenziali di un racconto hanno una funzione duplice e sono usati in modo diverso nelle due storie. I punti di contatto – gli incroci – sono il fondamento della costruzione del racconto.

 

IV

In «La morte e la bussola», all’inizio del racconto, il proprietario di un negozio si decide a pubblicare un libro. Tale libro si trova là perché è indispensabile alla manovra della storia segreta. Come fare in modo che un delinquente come Red Scharlach sia al corrente delle complicate tradizioni ebraiche e sia capace di ingannare Lönrot con una trappola mistica e filosofica? J.L.Borges gli fornisce questo libro perché si istruisca. Allo stesso tempo, usa la storia 1 per dissimulare questa funzione: il libro sembra trovarsi là per contiguità con l’omicidio di Yarmolinsky e risponde a una causalità ironica. «Uno di questi negozianti che hanno scoperto che qualunque uomo si rassegna a comprare qualunque libro, pubblicò un’edizione popolare della Storia segreta degli Hasidim». Ciò che è superfluo in una storia, è fondamentale nell’altra. Il libro del negoziante è un esempio (come il volume de Le mille e una notte in «El Sur»; come la cicatrice in «La forma della spada») della materia ambigua che causa il movimento della microscopica macchina narrativa che è un racconto.
 

V

Il racconto è una narrazione che racchiude una narrazione segreta.

Non si tratta, qui, di un significato occulto che dipende dall’interpretazione: l’enigma non è altro che una storia che si racconta in modo enigmatico. La strategia del racconto è al servizio di tale narrazione cifrata. Come raccontare una storia mentre se ne racconta un’altra? Tale domanda sintetizza i problemi tecnici del racconto.

Seconda tesi: la storia segreta è la chiave della forma del racconto e delle sue varianti.

 

VI

La versione moderna del racconto che viene da Anton Čechov, Katherine MansfieldSherwood Anderson, e dal James Joyce di Gente di Dublino, abbandona il finale a sorpresa e la struttura chiusa; maneggia la tensione tra le due storie senza mai risolverla. La storia segreta si racconta in un modo sempre più elusivo. Il racconto classico alla Poe narrava una storia annunciando il fatto che ve n’era un’altra; il racconto moderno narra due storie come se fossero una sola.

La teoria dell’iceberg di Ernest Hemingway è la prima sintesi di questo processo di trasformazione: ciò che più conta non va mai detto. La storia segreta si costruisce con ciò che non si dice, col sottinteso e l’allusione.

 

VII

«Grande fiume dai due cuori», una delle narrazioni fondamentali di Hemingway, nasconde e cifra a tal punto la storia 2 (gli effetti della guerra su Nick Adams) che il racconto sembra la mera descrizione di una escursione di pesca. Hemingway mette mano a tutta la sua perizia nella narrazione ermetica della storia segreta. Usa con tale maestria l’ellissi da conseguire che si noti l’assenza dell’altra narrazione.

Che avrebbe fatto Hemingway con l’aneddoto di Čechov? Raccontare con ogni dettaglio la partita, l’ambiente in cui questa si svolge, la tecnica usata dal giocatore per le sue puntate e il tipo di bibita che beve. Non dire mai che quest’uomo si suiciderà, ma scrivere il racconto come se il lettore già lo sapesse.

 

VIII

Franz Kafka racconta con chiarezza e semplicità la storia segreta, e narra invece la storia visibile con discrezione e cautela, fino a convertirla in una cosa enigmatica e oscura. Questa stessa inversione fonda ciò che si dice «kafkiano».

Kafka racconterebbe la storia del suicidio nell’aneddoto di Čechov in primo piano e con tutta naturalezza. L’elemento terribile sarebbe concentrato nella partita, raccontata in modo ellittico e minaccioso.

IX

Per Borges, la storia 1 è un genere, mentre la storia 2 è sempre la stessa. Per attenuare o dissimulare l’essenziale monotonia di tale storia segreta, Borges ricorre alle varianti narrative che gli offrono i diversi generi. Tutti i racconti di Borges sono costruiti con questo metodo.

La storia visibile, il gioco nell’aneddoto di Čechov, Borges lo racconterebbe usando gli stereotipi (lievemente parodiati) di una tradizione o di un genere. Una partita di carte tra gauchos in fuga, ad esempio, nel retro di un bar della pampa, raccontata da un vecchio soldato della cavalleria di Urquiza, amico di Ilario Ascasubi. La narrazione del suicidio sarebbe invece una storia costruita con la duplicità e la condensazione della vita di un uomo in una scena o in un atto unico che definisce per intero il suo destino.

 

X
La variante fondamentale che ha introdotto Borges nella storia del racconto, consiste nel fare della costruzione cifrata della storia 2 il tema stesso della narrazione.

Borges racconta le manovre di qualcuno che costruisce perversamente una trama segreta con i fili della storia visibile. In «La morte e la bussola», la storia 2 è una costruzione deliberata di Scharlach. La stessa cosa accade con Acevedo Bandeira in «Il morto»; con Nolan in «Tema del traditore e dell’eroe.

Borges (come Poe, come Kafka) ha saputo trasformare in aneddoti i problemi narratologici.

 

XI

Il racconto si costruisce per far apparire artificialmente qualcosa che fino ad allora era nascosta. Riproduce la ricerca sempre nuova di un’esperienza unica che ci permetta di vedere, attraverso la superficie opaca delle cose, una verità segreta. «La visione istantanea che ci fa scoprire ciò che è sconosciuto, non è una lontana terra incognita, ma il cuore stesso dell’immediatezza», così Arthur Rimbaud.

Questa illuminazione profana è diventata la forma stessa del racconto.

 

 


 

(Si ringrazia CrapulaClub e la rivista  Ô Metis.

La traduzione di “Tesis sobre el cuento” è apparsa nel quarto numero di Ô Metis, rivista letteraria del gruppo CrapulaClub).

Il racconto secondo Yates, di Francesca de Lena

Dove sono le finestre? La costruzione del racconto secondo Richard Yates

 

di Francesca de Lena

“Costruttori” di Richard Yates ha tutte le cose che non sopporto trovare in un racconto. Ha una 'voce fuori campo' che introduce la storia. Ha uno scrittore sfortunato e senza soldi per protagonista. Si chiude con una domanda. Eppure.

Eppure, “Costruttori” - uno dei racconti di Undici solitudini pubblicato in Italia da minimum fax - è per me il padre e la madre di qualsiasi cosa c’entri con la letteratura, con la bellezza di leggere, con la bellezza di scrivere, con la perfezione della forma racconto, con le mie idee sulla vita e con il mio lavoro. Conoscevo Carver, conoscevo Cheever e, naturalmente, conoscevo Hemingway e Flannery ‘O Connor, e li amavo. Ma Yates. Avete mai letto un racconto come “Costruttori” di Richard Yates?
La voce fuori campo è la voce di Yates che non riesce a restarsene fuori e lasciar parlare la storia per sé, e che non riesce a far esordire un protagonista scomodo senza avvisare: “guardate che questo protagonista è scomodo”. La maggior parte delle storie non ha bisogno del proprio autore che si metta in mezzo e le rovini e infatti anche “Costruttori” non è che ne avesse proprio bisogno, narrativamente parlando. Però Yates lo fa lo stesso. In sedici righe scrive un'analisi intima e lucidissima sul mal di scrivere di scrittori e aspiranti scrittori, e così facendo vivacizza tutto il racconto, che si trasforma in una visione ironica e malinconica di queste due categorie di persone che a vicenda non si sopportano e che però continuano a vivere insieme, a cercarsi e a farsi compagnia nella speranza che il mal di vivere passi.
 

Lo scrittore sfortunato e senza soldi si chiama Bob Prentice, un ventiduenne che nel 1948 è già stato in guerra, ha già una moglie di nome Joan e deve già sbarcare il lunario scrivendo nella redazione finanziaria della United Press, cose di cui non capisce niente per cinquantaquattro dollari la settimana. La sera Bob torna a casa e si rintana dietro un paravento con l'idea di scrivere finalmente le sue cose. Invece perde tempo, si guarda intorno, legge il giornale, e una di queste sere trova l’annuncio di Bernard Silver. Bernie non è uno scrittore e neanche un aspirante scrittore, è solo un tassista che cerca qualcuno che gli scriva un libro in cui lui è il protagonista delle storie da tassista che ci sono scritte dentro. E questa strana aspirazione di Bernie rientra nell'insofferenza del mal di scrivere come molte altre cose del racconto, cose che si potrebbero definire 'elementi sulla narrazione' oppure la 'visione poetica' dell’autore o anche 'le cose che Richard Yates vuole dire sulla questione dello scrivere', e di cui si potrebbe fare una lista in 9 punti:

  1. l'incipit: “Gli scrittori che scrivono di scrittori possono produrre facilmente il peggior genere di aborti letterari”
  2. l'adesione all’onestà nello scegliere le parole: un cappello è cincischiato, non consunto dall’uso
  3. il parallelo che ogni scrittore cerca con Hemingway e la cosa importante di scrivere che è:cominciare
  4. la consapevolezza che non devi perdere: quando tua moglie definisce il tuo racconto meraviglioso e tu sai che non vale niente
  5. il disprezzo degli scrittori per quelli che di scrivere non ne capiscono niente ma vogliono per forza parlarne
  6. il fatto che dietro a ogni storia non vera ci sia almeno un granello di verità
  7. la consuetudine di tutti i tempi a non retribuire la scrittura: «Ah, ma non mi fraintenda Bob. Non ho mai chiesto a nessuno scrittore di scrivermi una sola parola solo sulla base di ipotetici guadagni futuri».
  8. la celebre citazione da Pascal: «Supponga che qualcuno le scriva una lettera dicendo: “Bob, oggi non ho avuto tempo di scriverti una lettera breve, perciò ho dovuto scrivertene una lunga”».
  9. l'inclusione dello storytelling nelle forme di narrazione: «Ma Bernie, non vedo come potrà funzionare. Non si può scrivere un “racconto” spiegando perché qualcuno è l’uomo di cui abbiamo bisogno al Congresso». «Chi dice che non si può?»

E poi c'è il punto 10. Ed è il dialogo con cui Yates costruisce l’immagine più universale che sia mai stata pensata per definire la forma racconto:

Una casa, cioè, bisogna che abbia il tetto. Ma ci troveremmo nei pasticci se cominciassimo a costruirla dal tetto, no? Prima del tetto si devono costruire le mura, no? E prima delle mura si devono gettare le fondamenta, no? E così via. Prima delle fondamenta si deve scavare nel terreno una bella fossa, vero? Ho ragione?» […] E allora? Qual è la prima domanda che deve porsi a opera compiuta?

E qui arriva la perla, che Yates regala a Bernie (il non scrittore) piuttosto che a Bob (lo scrittore) e che per questo diventa ancora più lucente:

Dove sono le finestre?
 

La domanda a cui Bob non sa rispondere alla fine del racconto è dove siano le finestre nella storia che ha appena finito di costruire e che riguarda l'illuminazione nella sua vita, ed è la stessa che noi lettori di racconti ci poniamo ogni volta che apriamo un libro, e che noi esseri umani ci poniamo ogni volta che ci svegliamo al mattino: da dove entra la luce? Perché se il mal di scrivere colpisce scrittori e aspiranti tali, e anche persone come Bernie che con la scrittura c'entrano poco, il mal di vivere colpisce davvero chiunque e chiunque lo comprende, ed è in quella universalità che s'annida la letteratura.
L'idea che ha Yates della letteratura prende sempre la forma di racconto. Anche quando scrive romanzi, e anche nel suo romanzo migliore e più conosciuto, “Revolutionary Road”, resta un autore di forme brevi, che chiude su scene casalinghe e prive di enfasi, su elementi che, fino a un attimo prima, parevano di secondo piano. Perché? Perché Yates non vuole solo raccontare una storia, e non vuole solo dire la sua, e non vuole neanche oggettivare un'idea, un'ossessione. Lui vuole fare una cosa difficilissima ma che gli è indispensabile e questa cosa è: dire la verità. La verità che è, certo, quella e solo quella per una specifica storia e per i suoi personaggi, ed è innanzitutto la sua verità. Ma è anche – lo diventa:deve diventarlo – la verità per chi legge. Il lettore di racconti non vuole solo capire cosa narra la storia che ha di fronte, e non gl'interessa più di tanto commuoversi o arrabbiarsi o parteggiare per qualcuno. Il lettore di racconti vuole assolutamente credere in qualcosa: vuole credere che quella che sta leggendo sia la verità – e che sia tutta lì, e che non ci sia nient'altro da dire.
La parte migliore di “Costruttori” non sta nella trama o nelle perle sulla narrazione. Non sta neanche nella lucida ricostruzione della propria biografia, con l’esperienza di guerra, il matrimonio fallito, la costante ricerca di un lavoro che gli consenta di scrivere. La sua illuminazione sta in un punto che con la scrittura e l’essere scrittori non c’entra proprio nulla. In quel punto c’è solo la fotografia di un trombettiere, un giovanissimo e fiero Bernie sull'attenti che si preme contro la bocca la sua semplice ed eloquente tromba. Un'immagine da copertina alla quale Bob stenta a credere, lui che in guerra ci è stato proprio come ci è stato Bernie, come ci è stato Hemingway e come, in un modo o nell'altro, ci siamo stati tutti noi. Un'immagine che gli fa venire in mente: come si può vivere così? E alla quale, per fortuna, e per una volta, Yates risponde con una verità che tenta di salvarci: “Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi”.